lo spazio vuoto

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martedì 1 settembre 2020

CAMMINANDO...


Monte La Meta

Scorcio di fine estate. Un tempo per smarrire il percorso, sbagliare direzione.

Mi è capitato a volte, che mi si chiedesse perché andare in montagna, salire, sudare, fare fatica. 

Per arrivare in cima, ho sempre detto io, e mangiarmi un panino, contemplando la bellezza del creato. 

Ma la cima poi sta lì e tu devi tornare giù, e a parte qualche foto, resta solo l'acido nelle gambe, che il giorno dopo ti fa camminare come il noto e amato Uomo di latta, prima che Dorothy gli lubrifichi le giunture.

Si fa fatica a dire le ragioni dell'andare se non hai la montagna nelle gambe e nel cuore. 

In montagna ci andavo con mio padre, fin da bambina. 

Anche solo a camminare, anche senza ascesa. 

Da lui ho imparato che a salire si comincia presto al mattino, che ognuno ha il suo passo, ma non si lascia indietro nessuno, soprattutto se fa fatica, né cominci a ricorrere chi è più agile. Semplicemente cerchi un modo per trovare l'armonia dell'andare, pure se ognuno va come riesce. 


Da lui ho imparato che in montagna si va sempre con l'acqua, più di quella che pensi potrebbe servirti, e con gli scarponi, quelli alti per proteggere le caviglie, che ci si veste a cipolla, che bisogna indossare la canottiera, portarsi un cambio, e sempre uno scacciacqua, perché in montagna il tempo cambia molto rapidamente. 

E poi mai dimenticare un bastone, anche se sei giovani e hai le gambe di elasti-girl, perché nella difficoltà potresti non essere quella che pensi di essere, e allora è meglio avere un sostegno. Nella nostra casina di montagna, in Molise, conserviamo tutti i bastoni che lui ci ha fatto, di altezze diverse, noi crescevamo in fretta e i bastoni si accorciavano, anno dopo anno. 

Da lui ho imparato soprattutto che per andare in montagna bisogna studiare le carte e mai mai mai andare fuori percorso. Ci diceva che della montagna bisogna avere rispetto, che un percorso non valeva un altro, quindi era meglio scegliere sulla base delle proprie reali possibilità, senza mentire a se stessi. Sia in salita che in discesa dovevamo controllare e seguire i segnali, lasciati sulle rocce o sugli alberi, da chi si era preso la briga di aprire una via. 

Via che serviva a tutelare gli escursionisti, quelli più esperti e quelli dell'ultimo minuto. Un sentiero che soprattutto avrebbe circoscritto geograficamente il passaggio dell'uomo, per lasciare intatto agli abitanti del bosco il loro regno.

Della montagna ho sempre avuto timore, mi sono sempre sentita come  se dovessi entrare da ospite mal vestita nella casa di una vecchia famiglia aristocratica, una casa che non era la mia, in cui mi si riservava un'accoglienza impeccabile, circondata da meraviglie, nella quale avrei dovuto imparare di volta in volta una sorta di lessico famigliare, capace di consentirmi un dialogo autentico, non di circostanza. 

Quando ho cominciato ad andare in montagna da sola, anche senza mio padre, è capitato che sbagliassi sentiero, per un breve tratto, per distrazione, o ne scegliessi un'altro, nonostante le sue raccomandazioni. 

È capitato che rimanessi indietro, parecchio rispetto agli altri compagni di viaggio, e il mio scarso senso dell'orientamento abbia fatto il resto. Ho anche avuto paura.

È capitato altre volte di percorrere un tratto fuori sentiero, per scelta  per andare oltre, per poter dire: sono arrivata anche lì. Per sentire cosa accade dentro quando fai qualcosa che non dovresti fare, che sai che che è meglio non fare.

È capitato che salissi ignorando il maltempo e che fossi costretta a scendere senza vedere a nemmeno mezzo metro dai miei passi. Per fortuna in quella circostanza non ero da sola. 

Questa volta però è stato diverso.

E non perché fosse un'escursione nuova, anzi. 

Era una di quelle fatte e rifatte con mio padre in circa vent'anni di camminate. 

La conosco bene, so cosa c'è lungo il percorso, come si inerpica dentro il bosco, come è la vista quando si esce dal fitto degli alberi e si comincia a salire nella piccola valle che porta al valico e poi in cima. Di quella escursione conosco i tempi e la fatica. 


La conosco così bene da non aver neanche pensato di portare con noi la carta dei sentieri. 

Sbagliare è stato semplice, naturale. 

È bastato percorrere un sentiero che pensavo di conoscere. 

È bastato affidarsi al già saputo, all'arroganza del già percorso, a un senso della memoria, che nella maggioranza dei casi salva dal dover imparare ogni giorno a fare le cose consuete, ma che in altri inganna, sovrappone al sentire l'abitudine di passi stratificatisi sempre nello stesso modo.

Eppure era così evidente che non si trattava del percorso fatto in tanti anni di escursioni: invece che un unico chiaro inequivocabile sentiero, ci siamo trovati difronte a minute piccole piste, tracciate forse dagli animali, che avevano smosso il fogliame spesso del sottobosco. 

E poi moltissimi rami e tronchi di varie dimensioni che ostacolavano il percorso, come se le mani di una tempesta impetuosa fossero passate con violenza tra le chiome degli alberi, strappando via i rami più fragili.

Però abbiamo proseguito, dentro di me ho costruito la mia spiegazione, mi sono detta che l'inattività dei mesi di chiusura aveva portato anche lì a uno sconvolgimento. 

Forse non era stato possibile ai taglialegna, ripulire il sottobosco, e così tutto era a soqquadro. La casa in cui pensavo di dover essere accolta non era stata messa a posto. Ho avuto anche l'ardire di lamentarmi: da giugno a agosto di tempo ce n'è stato per fare pulizie. 

Qualche segno poi continuava ad apparire sporadicamente qua e là. Sempre incerto, sempre poco chiaro. Così abbiamo proseguito. 

Fino a quando è divenuto del tutto evidente che avevamo sbagliato percorso. 

In un punto ho avuto paura, si scivolava, lo spesso strato di foglie secche copriva piccole rocce, ingannando l'appoggio, non c'era niente a cui aggrapparsi, non avevamo bastoni, alla nostra sinistra poi si apriva un piccolo dirupo, nulla di così pericoloso, ma sufficiente a rompersi diverse ossa, cadendoci dentro.

Abbiamo dovuto proseguire, io davanti, cercando di indicare i punti in cui mettere i piedi, e a ripetere come un mantra di tenersi il più possibile lontani dal precipizio. Il marito ottimista era in coda, a consolidare i consigli. 

La paura generata da situazioni di questo tipo è degli adulti, non dei giovani. La figlia temeraria e il figlio contestatore, mi sono stati dietro, attenti, smorzando la mia ansia con ironia.

Il tratto fatto in queste condizioni è stato breve. Dopo poco siamo usciti a riveder ... la luce del sole, a inquadrare la cima che avremmo dovuto raggiungere, e a orientare di nuovo i nostri passi in direzione del percorso segnato. 

Ho ripensato a lungo nei giorni a seguire a questo scorcio d'estate in cui su un sentiero, che pensavo di conoscere, mi sono persa, trascinandomi dietro la famiglia. 

Mentre decidevamo cosa fare e come procedere, se tornare indietro o proseguire, come poi abbiamo fatto, il bosco aveva una voce diversa, in realtà aveva la sua voce. 

Quella voce a cui non avevo prestato attenzione sommersa dal fruscio dei miei pensieri che percorrevano un cammino preteso, battuto negli anni.

Per lunghi istanti ci siamo fermati ad ascoltare, mentre a turno uno di noi adulti esplorava il percorso in avanti. Abbiamo dovuto fare silenzio, per acuire i sensi, per sentire dove tirava il vento, per capire se ci fossero animali in zona. 

E ce n'erano, le tracce erano inequivocabili, avremmo potuto ricostruire la loro dieta. Che tipo di animali è facile a dirsi: mucche e pecore negli stazzi a mezza costa, camosci in cima, qualche orso in prossimità di cavità delle rocce nel bosco, lupi di sicuro, che però sono estremamente guardinghi nei confronti del loro più acerrimo nemico. 

Ci sono confini precisi tra gli spazi addomesticati dall'uomo e il regno della natura. Anche se spesso gli ignoriamo del tutto.

Noi in qualche modo e senza volerlo eravamo sul margine, in una zona di limite, in uno spazio concesso all'uomo, dentro un regno non suo. 

La percezione che quel tratto di bosco fosse abitato da altre creature è stata vivida e ineludibile. Eravamo ospiti, inattesi. 

Sbagliare percorso mi ha costretto a far accomodare il cervello nel retro del cranio.

Mi sono resa conto che sapere non è sentire, che abituarsi a una strada percorsa negli anni, ottunde i sensi, la mente diventa padrona, e costruiamo una natura a immagine del nostro sapere, peggio delle nostre proiezioni emotive. 

Salire sapendo i percorsi, ti fa arrivare in cima comodo e sicuro, ma è come se lo sguardo scivolasse via dalle cose che sono attorno, come se i confini del proprio corpo fossero tutti stretti aggrovigliati intorno alla testa: e così la trama complessa di quel particolare mondo naturale non esiste più in sé, ma solo per te, in funzione dell'obiettivo che stai perseguendo.

Sbagliare percorso mi ha costretto a un passo indietro, mi ha rimesso in una posizione di relazione aperta, nella quale non potevo più sovrapporre il mio sapere a qualcosa che in fondo non comprendevo.

Sbagliare percorso apre la percezione dei sensi su uno spazio vuoto nel quale non puoi che attendere silenziosamente che si facciano vive le voci di un mondo che è estraneo al tuo. E tentare una qualche forma di comprensione, per imparare a conoscere, semplicemente.

Fermarsi e ascoltare è l'unica possibilità che ti sia data di procedere, e vai avanti a tentoni, non puoi  più disporre i tuoi passi in sequenza preordinata e distratta. Devi prestare attenzione. 

Prestare attenzione e pazienza, rallentare, lasciare che ci sia l'incontro tra il desiderio di procedere e salire in alto, e quello di cercare i passi, necessari, essenziali, nuovi, a volte in bilico, uno dopo l'altro, senza sprechi. 

In quel bosco, perdendomi, ho sentito che quello era anche il modo in cui avrei voluto cercare le mie parole.

Parole per dire, il dolore, il vuoto, la paura, l'ansia, la gioia, il pudore, l'emozione di poter stare senza percorso e farcela. 

Farcela non è una sfida, sapere il percorso in montagna è necessario, vitale, però s'impara anche perdendo la strada, restando a misurare i tuoi respiri nel vuoto, quel vuoto in cui potresti anche precipitare. 

Si può imparare anche a stare al cospetto del vuoto, per accorgersi che è da lì che poi si può tornare con passi più attenti sul sentiero.






1 commento :

  1. Cristiana un racconto intenso in chi ci si ritrova con corpo anima e sensi
    Grazie ho percorso con tutti voi i sentieri, seguito i passi, sentito paura trepidazione e gioia
    Una narrazione profonda
    Grazie
    Annalisa

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