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martedì 13 marzo 2018

Al-Ghouta (per me)

Ho chiaro in mente, come uno scatto fotografico, quella pagina del mio libro di protostoria del Vicino Oriente Antico, in cui poco più di vent'anni fa scoprii l'esistenza di una regione in Siria, chiamata Ghouta. 
L'attuale oasi di Damasco o "Ghouta", è il risultato dell'utilizzo e del prosciugamento progressivo, nella steppa che fiancheggia a est l'Anti-Libano, di un fiume di montagna, il Barada, suddiviso dall'uomo in una feconda e complessa rete di canali che irrigano le colture. In questa forma artificiale l'oasi è recente e non risale molto oltre la nostra era. Nel Pleistocene il fiume si gettava ancora in un lago molto grande, situato leggermente ad est dell'oasi attuale e il livello di questo lago non ha smesso di abbassarsi, fino ad arrivare, nell'Olocene, ai due piccoli laghi attuali. Verso il 9000 a.C. uno di questi, il lago Ateibé, era contornato da paludi che hanno fornito le canne utilizzate durante il neolitico nell'architettura del villaggio di Aswad, situato sulle sue rive. Malgrado le precipitazioni (attualmente 200 mm. d'acqua all'anno) fossero troppo scarse per le colture aride e non avessero permesso, come si è visto, la crescita spontanea di cereali selvatici, i terreni sedimentari, costituiti da delle marne lacustri lasciate dal ritirarsi del lago e delle argille alluvionali portate dal Barada, e umidificati inoltre dalla prossimità delle paludi, dovevano essere assai favorevoli alle colture. Gli Aswadiani furono i primi occupanti di tali terreni. (J. Cauvin, Nascita delle divinità e nascita dell'agricoltura,. La Rivoluzione dei simboli nel Neolitico, pag.74)
Immediatamente accanto a quella pagina me ne viene in mente un'altra, quella nella quale il nostro Maestro di Storia del Vicino Oriente Antico, Mario Liverani, descrive il concetto di nicchia ecologica, mentre parla dei caratteri di realtà ecologica appunto e di mappe mentali, quindi storicamente definite, usati entrambi per connotare il Vicino Oriente: 
Opposto è il concetto di nicchia (ecologica e culturale), che sottolinea il valore di certe zone, compatte e coerenti, delimitate da interfacce anche ravvicinate, e protette rispetto all'ambiente circostante in modo tale da riuscire a sviluppare al meglio le loro potenzialità produttive e organizzative. La nicchia può essere anche piccola (una vallata intermontana, un'oasi), tanto piccola che nella dimensione dei fenomeni economici e storici cui siamo oggi abituati non potrebbe svolgere alcuna funzione autonoma e specifica. Ma occorre ricordare che la dimensione dei fenomeni con cui abbiamo a che fare nel Vicino Oriente di età pro-storica e storica pre-classica è una dimensione molto ridotta: le concentrazioni umane, gli accumuli di eccedenze, le sistemazioni territoriali, le competenze artigianali e i contatti commerciali acquistano un ruolo storicamente già avvertibile anche se costretti entro ambiti quantitativamente modestissimi. (M. Liverani, Antico Oriente. Storia, società, economia, Editori Laterza, pag. 31)

Il Ghouta è stata una delle nicchie ecologiche nelle quali si è manifestata quella che Gordon Childe definì la rivoluzione neolitica, un processo lungo e diversificato, che condusse i gruppi umani a una trasformazione radicale dei modi di vita sociale ed economica, e dunque culturale. 
A Tell Aswad, ai margini orientali del Ghouta, le ricerche, condotte da J. Cauvin, hanno mostrato l'evidenza di un grano domestico, che, con grande probabilità, quel gruppo umano, lì insediatosi, aveva portato dalle pendici dell'Anti-Libano. 
Tra i resti è attestato anche dell'orzo che continua tuttavia a manifestare le caratteristiche di tipo selvatico (Hordeum spontanea). Questo non vuole dire che non fosse coltivato, semplicemente che non evidenziava ancora trasformazioni morfologiche. Secondo alcuni studiosi nell'oasi di Ghouta sono stati anche coltivati piselli e lenticchie. L'alimentazione veniva poi integrata dalla raccolta di frutti selvatici, pistacchi, capperi e fichi, mentre le risorse di carne provenivano esclusivamente dalla caccia, mancando tracce di domesticazione animale. 
Più recentemente (2000-2006) Tell Aswad è stato protagonista di una nuova eccezionale scoperta, fatta dall'archeologa francese D. Stordeur (qui potete leggere l'articolo per esteso): si tratta del ritrovamento di crani rimodellati, usati nell'aree funerarie del sito, come elemento di fondazione delle aree stesse a partire dal PPNB medio e recente (Pre-Pottery Neolithic B, 7300-6650). La pratica non è nuova nel Vicino Oriente ma in questo caso è interessante la sua presenza diffusa, oltreché la straordinarietà della realizzazione e il risultato ottenuto, visibile nelle foto che seguono. 
            Tell Aswad, crani 741-CS3, dall'articolo di D. Stordeur
Le aree cimiteriali individuate, poste ai margini del villaggio di Tell Aswad, sono state due, una più antica e l'altra più recente. Gli aspetti interessanti di queste pratiche funerarie sono legati per esempio al fatto che la deposizione dei crani modellati, venisse posta a fondamento delle inumazioni successive,  ma contestuali cronologicamente, disposte in prossimità dei crani stessi, i quali venivano presumibilmente lavorati sul posto. 
  Tell Aswad, crani 741-CS1, dall'articolo di D. Stordeur
La lavorazione del cranio consisteva nel riempimento della testa e nella successiva lavorazione del volto, con la stesura di un impasto molto sottile di colore bianco, una specie di intonaco, che andava a riempire anche gli occhi, nei quali veniva poi praticata una fessura orizzontale ad indicarne la chiusura, e nella fessura veniva posta una sottile striscia di bitume, verosimilmente a rappresentare le ciglia. Il naso era perfettamente modellato con l'indicazione delle narici, la bocca veniva rappresentata da una semplice fenditura, con un leggero rilievo ad indicare le labbra, e in molti casi il volto veniva ricoperto dal colore in ocra rossa.
Studi di confronto prodotti con altri siti della regione, da Ain Ghazal a Besamoun, da Gerico a Ramad, hanno indotto l'archeologa Stordeur a ritenere che le aree cimiteriali fossero di pertinenza del gruppo per intero, e non limitate a un insieme domestico.
La funzione di questi crani era quella di fondare ritualmente l'area destinata a ospitare i defunti. Le sepolture collettive venivano riaperte ogni qual volta era necessario deporre un nuovo defunto, cosa che spesso ha provocato lo scasso dei livelli sottostanti, e in un caso anche la rottura di uno dei crani rimodellati.
La vita collettiva aveva prodotto nel tempo, non solo la capacità di generare modelli produttivi che garantissero la stabilità del gruppo, ma anche strutture simboliche che affinassero la capacità di elaborare l'inspiegabile, come la morte.
A questo riguardo è particolarmente suggestivo il ritrovamento dello scheletro di un bambino, di circa un anno di età, adagiato immediatamente sopra l'insieme dei crani rimodellati.
Tell Aswad, crani 741-CS1, CS2,CS3 e al centro lo scheletro del     bambino, dall'articolo di D. Stordeur
Tutto a testimoniare la profondità culturale di quest'area, quella nella quale gruppi umani, mediando tra gli elementi ecosistemici e le proprie aspettative, hanno dato fondamento ai primi esperimenti di vita comunitaria insieme, scegliendo di rimanere stabili in un luogo. 
Esperimenti vincenti e che richiedevano progettualità di durata nel tempo, ricerca di condizioni di interdipendenza solide e condivise, e che da quei millenni in poi, stiamo parlando del IX millennio a.C., hanno portato nel giro di altri cinque millenni alla fondazione delle prime strutture urbane. Il resto è storia, nel senso tecnico, cioè storia che comincia a essere anche scritta, con l'invenzione della scrittura.
Ecco, per me, e detto davvero in poche parole perché la letteratura scientifica è sterminata, questo è il mio Ghouta, la mia personale nicchia simbolica, quel luogo accogliente, raccolto, ospitale, nel quale l'uomo ha messo a dimora non solo semi, ma proiezioni di futuro, storie, prassi sociali, comportamenti, che lo hanno reso umano in senso pieno, stabile e consapevole.
Sapere che proprio il Ghouta è oggi, in queste ore, terreno di devastazione umana, inabissamento dell'accoglienza, del vivere civile, di ogni possibile proiezione di futuro, annientata nelle vittime bambine, è per me oltremodo inconcepibile e doloroso. 
Un dolore sordo, che mi inebetisce difronte alle immagini, che trasloca la coscienza a fondo, alla ricerca di un qualche logica inaudita, perché incapace di comprendere file ordinate di parole che dovrebbero spiegare l'inspiegabile di strategie folli e che riducono la storia millenaria e straordinaria di questo popolo, insieme al suo popolo stesso, in un cumulo di macerie umane, materiale e spirituali. 
BASTA, DAVVERO BASTA!


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