lo spazio vuoto

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venerdì 2 dicembre 2022

POETICA DELL'ABITARE IN FILEMONE E BAUCI

 


Mille domos adiere, locum requiere petentes,

mille domos clausere serae. Tamen una recepit,…

 

Nec refert, dominos illic famulosne requires:

Tota domus dua sunt, idem parentque iubentque.

 

Ergo ubi caelicolae parvos tetigere penates 

Submissosque humiles intrarunt vertice postes,…


La poetica dell’abitare nel racconto di Filemone e Bauci trova compimento nei gesti di cura quotidiana che i due vecchi riservano a quegli strani viandanti, dei dall’aspetto umano, invisibili stranieri giunti all’improvviso tra le strade di un dimenticato villaggio della Frigia.

Ma la poetica dell’abitare si sostanzia soprattutto di parole, con cui Ovidio costruisce una semantica dell’accoglienza tutta incentrata sul vano esercizio del potere all’interno delle mura domestiche, ma anche certamene fuori in una dimensione più spiccatamente politica, come vedremo. 

Ecco allora che la domus, le domus, visto che singolare e plurale sono identici trattandosi di un sostantivo di quarta declinazione, sono quegli spazi su cui è il dominus a comandare, quei padroni che sprangano le porte ai due stranieri in cerca di un luogo per riposare.

Il dominus così è colui che si riconosce dall’esercizio violento del suo potere, un potere tuttavia che è circoscritto alle mura della propria casa. 

Una sola piccola dimora resta aperta e proprio lì al suo interno Ovidio ci dice che non è possibile capire chi è il dominus e chi il famulus, il padrone e il servo, dentro quelle mura non viene messo in pratica quel potere che invece aveva fatto sprangare le porte delle altre case. Saltano cioè in quella casa le gerarchie di cui si sostanzia la società del tempo, perché quella è una tota domus duo, laddove domus è singolare e plurale: una casa, due case-corpo, senza servi né padroni.

Che poetica dell’abitare rivoluzionaria!

Ma non basta. Pochi versi ancora e quella casa diventa davvero segno e sostanza, semantica di un nuovo modo di concepire l’abitare umano degli spazi, non solo quelli circoscritti alle mura domestiche, perché quella casa resta aperta in una relazione d’incontro con tutto quello che viene da fuori, senza tuttavia dimenticare la storia che l’ha generata così com’è. È in questo senso che va inteso quella presentazione di Filemone e Bauci come di due vecchi che vivono insieme in quella casa fin dalla loro giovinezza, accogliendo nel tempo la vecchiaia e la semplicità della loro vita. 
Con tutto quello che nel tempo sono diventati, i due vecchi tengono la porta aperta e danno ospitalità ai due viandanti stranieri. 

E allora i caelicolae, così vengono nominati gli dei, dal verbo colo, cioè coloro che abitano il cielo, si avvicinano a quella piccola casa e entrano, chinando il capo, perché gli stipiti sono bassi.

Persino gli dei non sono padroni del cielo, ma sono appunto caelicolae

Il verbo colo ha a che fare l’abitare un territorio rendendolo fecondo con le proprie azioni, con l’azione di coltivare la terra, per esempio nel caso dei coloni, che sono infatti coloro che fanno fruttare lo spazio nuovo che si sono trovati ad abitare, praticando quell’attività che ha dato origine alla dimensione stanziale dei gruppi umani e che li ha condotti ai diversificati processi di urbanizzazione. 

Abitare un territorio significa allora renderlo fecondo e generativo in una prospettiva di comunità.

Ergo ubi caelicolae parvos tetigere penates: dunque gli dei sono abitanti del cielo perché compiono azioni che rendono fecondo il luogo in cui abitano, il cielo appunto. 

E si avvicinano a quella piccola casa, che qui viene però nominata con un termine di straordinaria bellezza: parvos penates.

Quanta ricchezza, meraviglia e potenza nella lingua di Ovidio!

Quella piccola casa infatti non è più domus, ma penates!

Penates però sono le divinità tutelari, che nella storia della religiosità romana avevano la funzione di proteggere la casa con i suoi abitanti. Il termine deriva dal sostantivo penus, penum, che indicava le provviste di viveri, riposte nella parte più nascosta della casa, in un luogo protetto e al sicuro da umidità e insetti. 

Penates sono anche le divinità che Enea porta con sé fuggendo da Troia e che con lui giungono, secondo il racconto che ne fa Virgilio nell’Eneide, a Lavinium dove nel VI a.C. i magistrati eletti, prima di assumere o deporre la carica, venivano a compiere sacrifici proprio davanti a quei Penati giunti da Troia con Enea. 

Quegli stessi Penati che sono rappresentati nel monumento celebrativo alla pace  di Augusto, fatto erigere dal Senato a partire 13 a.C. e inaugurato nel 9 a.C., l'Ara Pacis: qui sono rappresentati come due giovani in armi che siedono all'interno di un tempietto, posto in alto di fronte a un non più giovane Enea che, appena giunto sulle coste laziali, sacrifica proprio ai Penati portati da Troia una scrofa bianca e i suoi trenta porcellini.  

Penati quindi stranieri che però erano finiti nel culto della città di Roma, secondo la versione che Virgilio ne dà nell’Eneide. Penati di Virgilio che Ovidio conosceva bene, visto che quando Ovidio scriveva i suoi versi, quelli di Virgilio era già da molti anni entrati a far parte della propaganda di Augusto, proprio grazie al suo poema celebrativo. Ovidio invece di lì a poco, dopo la stesura delle Metamorfosi avrebbe conquistato ben altra posizione, l’esilio in una terra desolata, a Tomi, sul lago di Costanza, dove, lo sappiamo dai Tristia, il suo scritto testamentario, avrebbe consumato i suoi giorni fino alla morte.

Dunque parvos penates è la casa di Filemone e Bauci, collocata in una terra che respinge gli stranieri in cerca di un luogo per riposare. 

Esattamente il contrario di quanto accade ad Enea, che, portando da Troia con sé quei Penati, viene accolto sulle coste laziali, diventando così progenitore della gens Iulia.

Il termine parvos penates viene usato metaforicamente per indicare tutto ciò che ha a che fare con la casa, il nido, uno spazio protetto, in cui non trova luogo il potere del dominus, proprio perché come abbiamo visto si riferisce a quelle provviste che venivano custodite nel Penius, la parte della casa più protetta da variazioni termiche e infestanti.

Ecco allora che la casa che accoglie non è la domus, le domus, che restano edifici nei quali il potere esercitato non vale a salvarle dalla catastrofe di un’inondazione, al contrario proprio la loro chiusura ne determinerà la fine, la scomparsa fisica. 

La casa che accoglie allora è un sostantivo plurale, perché solo al plurale ha senso, proprio come i due protagonisti della storia, e viene salvata dall’inondazione perché i due vecchi, Filemone e Bauci, sono protagonisti di una forma di accoglienza che si situa nel solco della Storia, di quei Penati stranieri che tra le mani di Anchise e sulle spalle di Enea giungono fino a Roma, un'accoglienza che continuerà anche successivamente, attraverso la metamorfosi dei due anziani contadini della Frigia.

Una poetica dell’abitare allora in cui le parole sono semantica di un’esistenza nella quale lo spazio della casa e quello geografico del territorio vengono abitati, non dominati, in una sorta di relazione osmotica che chiede contaminazione e trasformazione, metamorfosi appunto.

Una metamorfosi resa possibile grazie a un senso della Storia che attraversa tutta la narrazione. 

Abitare uno spazio significa essere nella Storia con la propria storia, disposti a condividere ciò che si è, ciò che si ha, custodendo ciò che la vita ha offerto, e  sapendone al contempo fare offerta. 

Filemone e Bauci non sanno di avere di fronte due divinità, eppure sono prodighi nell’offrire, nel preparare il cibo, come fosse un’offerta a quei Penati custodi della casa e del tempio, che di lì a poco la loro stessa casa diventerà.

Casa allora è dove risiedono i Penati, dove ha luogo il culto della memoria, che si fa vivo nei gesti concreti dei due vecchi capaci di tenere la porta aperta e di offrire, come fosse un'offerta sacrificale, tutto ciò che hanno.

Al contrario l'esercizio del potere dentro le mura domestiche, dentro i confini del proprio paese, dentro le proprie tradizioni, che si chiudono all'incontro con lo straniero, con il non ancora conosciuto, conducono a una storia che rende su lungo termine infecondo quel territorio, quella casa, quel paese, come racconta bene Ovidio nella storia di Filemone e Bauci. Sopravvive chi sa aprirsi al dialogo, chi sa fare memoria delle proprie tradizioni nell'incontro con l'altro.

Così sembra dirci anche Ovidio nelle ultime parole delle sue Metamorfosi, consapevole forse che i suoi dissapori con Augusto lo avrebbero posto definitivamente a margine, non solo della corte, ma della vita culturale della città, ma non certo della Storia, che infatti ancora ne porta avanti la memoria e il testamento letterario. 


Queste infatti le ultime parole delle sue Metamorfosi:


E ormai ho compiuto un'opera che né l'ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo che tutto rode potranno cancellare. Quando vorrà, venga pure il giorno fatale - che può però disporre solo di questo corpo - e ponga pure fine allo spazio (quale sia io non so) della mia vita. Ma con la parte migliore di me io volerò in eterno più in alto delle stelle, e il nome mio rimarrà indelebile. E ovunque si estende, sulle terre domate, la potenza romana, le labbra del popolo mi leggeranno, e per tutti i secoli, grazie alla fama, se qualcosa di vero c'è nelle predizioni dei poeti, vivrò. 

(trad. P.B. Mazzolla) 

Sulla poetica dell'abitare tanto abbiamo ancora da imparare dai  due vecchi abitanti della Frigia, Filemone e Bauci.


(La traduzione del testo di Filemone e Bauci presente nelle Metamorfosi di Ovidio è di chi scrive, le illustrazioni sono di Daniela Tieni, ed è edito dalla casa editrice Topipittori)



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