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venerdì 23 settembre 2022

UNO SGUARDO SU ... L'IMMENSITÀ

L' Immensita' | Cinema Porto Astra

Qualche giorno fa sono stata al cinema a vedere L’immensità, un film la cui uscita ha destato fin da subito curiosità e aspettative. Curiosità perché l'ipotesi della storia autobiografica e personale del regista, Emanuele Crialese, ha destato un’iperbole crescente di attenzione, come se questo fatto dovesse di per sé essere un valore, una qualità a prescindere. Chi come me ha a che fare con la costruzione delle storie sa che il verosimile è vero, tanto quanto una storia autobiografica. Più volte il regista ha detto che questo è sì un film che a che fare con la sua storia, ma non ha voluto che a essere rappresentata fosse solo la sua personale esperienza di vita.

Ma torniamo alla storia del film, che a questo punto è corretto dire è ispirata a quella del regista, con l’intenzione di rendere universale, come solo l’arte sa fare, una storia personale.

Al centro della storia la telecamera punta il suo occhio sulla famiglia protagonista, ma la narrazione è portata avanti dallo sguardo dei bambini, i tre figli della coppia, Adriana, la più grande, Gino il mediano, e Diana, la piccola.

Siamo negli anni settanta, Clara, la madre straniera, motivo per il quale non viene doppiata, ed è infatti impersonata dalla meravigliosa Penelope Cruz, si mostra fin da subito nella sua estrema fragilità, una donna succube di uomo arrogante, violento e fedigrafo. 

I bambini guardano, in silenzio, osservano, cercano di opporsi per come possono a quello che non riescono a comprendere: il comportamento del padre, chiuso nella gabbia di uno stereotipo maschile che non gli lascia sperimentare altro che l’impartire ordini; il comportamento della madre, che prova a celare la crisi, a nascondersi e a nascondere dietro a una giocosità forzata, una propensione al divertimento che appare fin da subito eccessiva, quasi invadente nei confronti dei bambini, a tal punto che in una scena Adriana le dice che lei non può fare quel gioco, deve stare nel mondo di sopra, con gli adulti, il suo essere estranea oltreché straniera. 

Una giocosità con la quale vorrebbe proteggere e al tempo stesso sdrammatizzare il senso di oppressione, il sentirsi preda in gabbia, non solo di quell’uomo con cui ha generato i suoi figli, ma di un sistema di convenzioni che per anni ha chiesto alle donne di tacere e di occupare un ruolo liminale nella società. 

Così fin dalla prima scena lo spettatore avverte questo senso di angoscia, e insieme con i bambini protagonisti, non riesce a essere pienamente partecipe di quell’ostentata danza di apparecchiamento per una cena nella quale ospiti non graditi sono il padre e il silenzio.

Eppure quei bambini attoniti e silenziosi hanno una voce, che parla attraverso il corpo, i gesti, le azioni: Adriana, che sente nel profondo di non essere una bambina e vorrebbe diventare un bambino, porta avanti piccole scelte di ribellione, varca confini proibiti, come il canneto, un elemento scenico dai chiari rimandi fiabeschi, anche per il modo in cui la cinepresa vi passa in mezzo, e che porta la protagonista a sperimentare la ricerca della propria identità, l’essere amata per come è. È proprio oltre il canneto che incontra infatti una ragazzina, alla quale si presenta come Andrea e con la quale nasce un sentimento sincero e profondo di amicizia e affetto, proprio perché la sua amica la/lo riconosce per quello che è. 

E poi ci sono Gino, il mediano, che mangia troppo ed evacua in corridoio, per dare dimostrazione della sua presenza, per non restare schiacciato da quella figura paterna così diversa da lui, e per non restare fuori dal quel rapporto così speciale che la madre ha con Adri e con la più piccola Diana.

Ma anche Diana grida al mondo tutta la paura di camminare sempre in bilico sull’orlo del disastro: lei infatti cerca ostinatamente di richiamare l’attenzione trasformando il cibo, e il momento della condivisione del cibo, in una occasione di immaginazione, così ciò che è nel piatto viene ridisegnato, e mai mangiato.

Luana Giuliani, Patrizio Francioni e Maria Chiara Goretti ne L'Immensità

Potentemente immaginifico è anche il richiamo ai varietà con cui la TV di Stato faceva il suo ingresso nelle case degli italiani, con una Raffaella Carrà che coniugando corpo, voce e parole restituiva alla società tutta l’immagine di una donna che poteva esprimere desideri, un corpo suo e una presenza scenica viva e vitale.  

La TV rappresenta nel film una sorta di finestra aperta su un mondo in cui davvero è possibile, anche solo per il tempo di un varietà, immaginare una società libera dalle convenzioni sociali, che costringono in ruoli asfittici madri, padri e figli.

Ma ciò che davvero rende questo film un capolavoro è la poesia della fotografia, che irrompe con squarci luminosi come da un Altrove, con soluzioni sceniche che affondano dagli occhi dello spettatore verso l’interno, e vanno ad agganciarsi a qualcosa di profondo, un terreno comune in cui poter sentire, in sintonia con i personaggi, i sentimenti e le emozioni più profonde, che fanno Rumore, proprio come canta Raffaella Carrà in una delle scene iniziali, e che chiedono di essere accolte, convocate alla presenza dello spettatore, senza essere giudicate.

Più volte il regista ha dichiarato che il film ha a che fare con temi a lui cari come la donna e la maternità, i bambini, le migrazioni, la transizione di un’anima.

Ma il film è molto, molto di più, un manifesto poetico alla fragilità dell’esistenza, un inno alla libertà di essere un essere umano, cantato, mi viene da dire, con delicatezza, rispetto e cura, soprattutto nei confronti di quei bambini che continuano a osservarci, anche quando non prestiamo loro attenzione. 

Proprio agli attori bambini va una menzione speciale, perché, nonostante fosse per ognuno di loro la prima volta sul set, hanno reso i personaggi interpretati indimenticabili. 

Nel titolo mi piace pensare a un mondo che nell'immensità del suo sguardo possa accogliere le voci e i corpi plurali delle sue creature. 

Bravo Crialese ma bravi davvero tutti 

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